Some die just to live
Leggenda vuole che, aggirandosi in un mercatino delle pulci, Eddie Vedder si sia imbattuto in un’enciclopedia di cent’anni prima chiamata Vitalogy, piena di considerazioni pseudoscientifiche e assurdi suggerimenti per una vita migliore. Da qui prendono vita artwork e concept del terzo disco dei Pearl Jam, registrato nel periodo più drammatico della storia della band, dilaniata da rapporti interni tesissimi che si riflettono in composizioni ruvide e arrangiamenti quasi improvvisati in studio.
Ne viene forse il loro miglior album con il successivo No Code, che sancirà la fine del periodo più creativo del gruppo, nonché uno dei simboli degli anni Novanta.
Scuro e sperimentale, rabbioso e intensissimo, Vitalogy si allontana di molto dal classico hard-rock dei successi milionari Ten e Vs. per abbracciare uno spettro sonoro più ampio: da un lato, le sfuriate punk Spin The Black Circle (ode al vinile scelta provocatoriamente come primo singolo, stravolta dall’urlo definitivo di Vedder) e Whipping; dall’altro, le ballate psichedeliche e sognanti Nothingman e Immortality, oggi come allora capaci di toccare corde nascoste con disarmante facilità.
Il resto è pura essenza Pearl Jam: il r’n’r ossessivo di Last Exit e la minacciosa Not For You, ma, soprattutto, due meraviglie come Corduroy e Better Man, refrain pop-rock da antologia che rischiò di finire fuori dall’album perché considerata troppo commerciale.
Un lavoro dall’umore nero, tutto centrato sulla caducità della vita umana, la malattia e la psicosi, prisma attraverso cui il cantante proietta tutte le difficoltà legate alla gestione del successo (le stesse che si era trovato ad affrontare Kurt Cobain nello stesso periodo), che regala liriche e la solita voce da brivido e tocca apici di insana follia in alcuni esperimenti sonici (il canto ubriaco per fisarmonica di Bugs, gli otto minuti rumoristi di Stupid Mop) concepiti apposta per allontanare l’ascoltatore occasionale.
Un vero capolavoro scomodo e radicale, tanto sincero da far male, con le lacerazioni che ogni rito di passaggio porta con sé.
Ti è piaciuto questo album? Allora ascolta anche
Scentless Apprentice – Nirvana
Tonight’s The Night – Neil Young
Beyond The Threshold – Husker Du
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Non sapendo praticamente nulla dei Pearl Jam mi riesce difficile scrivere un commento a questo album. posso sicuramente dire che, conoscendo Eddy Wedder solamente per la colonna di “Into the Wild”, non è la musica che ci si aspetta. Senza entrare nei particolari della storia della band nel periodo in cui Vitalogy è stato scritto, per il semplice fatto che li so solo sommariamente, l’album mi si è presentato come le diverse facce della musica dei Pearl Jam: in un singolo dura e molto vicina al punk mentre in un altro è una ballata calma, che ricorda il country.
Senza dubbio ora mi documenterò di più sopra ai Pearl Jam e ai loro lavori precedenti, così forse riuscirò a capire più a fondo Vitalogy.
il disco in effetti è molto particolare, soprattutto se paragonato al classicismo delle due opere precedenti (Ten e Vs.) e a tanto di quello che verrà dopo (dischi solisti di Eddie Vedder compresi); a mio parere, con No Code, l’album più bello, sperimentale e personale dei Pearl Jam, che, dopo un paio di altre uscite molto molto belle, prenderanno una china discendente. Se vuoi saperne di più, comunque, ti consiglio la lettura del bel libro “Pearl Jam. Atto di Rivolta” di Milena Ferrante, che trovi nelle biblioteche: racconta la storia della band fino al 2002, con particolare attenzione ai primi anni. =))